venerdì 23 dicembre 2011

Di nuovo sull'eroismo

Attraversare mari in tempesta: questo lo sappiamo fare. Scherzare con le bestie più pericolose, uccidere i giganti cattivi, affrontare le crudeltà più atroci, prendersela con quelli più grossi di noi, combattere battaglie perse. Yeah, tutto per la nostra stoffa.
Ma le piccole crudeltà di ogni giorno, la ricerca di un pezzo di sé…
Non che ci sia una legge universale: sembra sempre che gli altri ci riescano senza sforzo, e che tu invece resti lì, piantato nel fango che si secca e non riesci ad uscirne. Mica panico da sabbie mobili, no. Già sarebbe qualcosa che ti farebbe sentire come minimo un eroe.
Leggi Neruda, leggi Pessoa: ti sembra di essere in ottima compagnia. Solo che loro erano poeti, magari anche con qualche problema di depressione e personalità multipla. Ma almeno scrivevano bene.

E tu? Che fai? Ti arrampichi sugli specchi, giochi, crei una maschera da usare e da tenere ben lontana dal viso. Nessuna bugia, solo una crosta di verità. Un gioco di parole divertente che ti fa sentire furbo e intelligente. Prendi ispirazione da tutto quello che ti circonda, e sei di volta in volta una strega nel maelstrom dello spazio, un arciere in una città-stato post moderna, il nome di una creatura magica.
E lo strano testo di una canzone che ti canti da solo, liberando reami immaginari e saldando debiti altrui con una giustizia che conosci solo tu: un eroe, un eroe vero.

(le immagini di questo post sono tratte dagli albi di Leo ortolani, Rat Man 299 e +1)

mercoledì 30 novembre 2011

Sulla schiavitù

Riporto un pezzo di Pessoa, forse il mio poeta preferito in questi anni.
Ripreso dal "Libro dell'Irrequietezza" di Bernardo Soares.

"La schiavitù è la legge della vita, e non c’è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L’amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana perché nuova e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l’orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell’angolo o a non scambiar il buongiorno con l’ozioso barbiere.
Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle."

lunedì 14 novembre 2011

Al grand marché

Immaginiamo di andarcene al mercato.
Un bel mercato africano, chiassoso e colorato. Cesti, banane e bambini. Bacinelle colorate piene di qualsiasi cosa, set di pentole smaltate. Immancabili sacchetti di plastica, inutili e sottili, ti seguono in mano ad un accompagnatore autonominatosi per l'occasione.
Con le bancarelle strette strette una all'altra: comincia su dei banconi di cemento, coperti da un tetto, in una struttura in muratura aperta come un enorme porticato. Tutto attorno sono cresciuti interi quartierini di banchetti e bancarelle di legno coperte, che ormai fanno un tutt'uno.
Si passa da una strada vociante, piena di clacson e persone, motorette e passanti, sole e polvere, a una serie di budelli in cui, addentrandosi, la luce si attenua a poco a poco.
Per terra, canaline di scolo in cui è poco raccomandabile infilare un piede, cartoni e pezzi di legno arraffazzonati per evitare di mettere i piedi nella fanghiglia o nella merce che marcisce, o su qualche coda di pesce vecchia di giorni, o su qualche pezzo di intestino. O su chissà che liquido si sia mischiato con la polvere e la terra della strada.
Sopra tutto, un'allegrissima puzza, di cose che si decompongono, di sporcizia, spezie, verdure e frutta, e di esseri umani puliti, sporchi o profumatissimi, e qualche cane.
Si va a settori: il settore del pesce fresco e secco, di mare, e affumicato, di fiume. Il settore della verdura e della frutta. Alcuni prodotti sono venduti già lavorati, come la pasta di arachidi, tegami di montagne marrone chiaro odorosissime, o alcune verdure già tagliate a striscioline sottili (come il fumbu, fettine sottilissime di foglie tagliate al momento in mucchi verdi) o a rondelline. La frutta viene venduta intera, ma anche pronta per essere mangiucchiata mentre si discute un prezzo o si cerca la propria merce. Manioca ovunque: in farina, in piccoli pani avvolti da foglie secche, in tuberi neri.
Settore dei vestiti e delle stoffe, canottiere e magliette appese in ogni dove, reggiseni che si potrebbero usare come reti da pesca, mucchi di magliette lerce, pantaloni vistosi, qualche strass. Extensions e smalti segnano una piccola digressione tra un paio di estetiste improvvisate, prima di passare ad oggettistiche varie e altri cosmetici. E tronchetti di argilla da mangiare, per le donne incinte. Dietro, si vedono ancora caschi di banane.
Qualcuno ti sfiora la mano e te la tira leggermente, e siccome non te l'aspetti, distratto da tutto quello che ti circonda, ti spaventi e hai un piccolo soprassalto. Un tipo semisdraiato che ghigna alle tue spalle, si ridistende a pisolare. Stronzo. Intorno, si diffonde profumo di spezie e di frutta.
Nel frattempo, mentre pensi ai regali che potresti cercare, a qualche collanina, a chi ti ha chiesto con aria seria di portargli un pezzo di Congo, cambia la tipologia di merce. Cala un po' la luce: sei ormai al centro delle bancarelline di legno, attorno alla costruzione centrale in cemento, e cominciano a comparire strani ossicini, polveri, piccoli crani, bacche seccate, bastoncini e oggetti che non si capisce se siano ripugnanti o meno...ma ad ogni buon conto, meglio non toccare troppo e stare al centro del passaggio angusto tra una bancarella e l'altra.
Perle strane, cordoncini, piccoli fasci d'erbe, becchi e piume, qualche zampa di uccello. Mah.
Non è da queste parti che nasceva la magia nera del vudù africano?
Non ci credo, ma ad ogni buon conto scivolo con gli occhi e non mi soffermo quando mi chiamano "mdele", bianco. Qui non mi va di scherzare e sorridere e salutare. Non ci sono bambini dietro le bancarelle, ma non saprei dire chi altri ci sia.
Nel frattempo l'odore cambia impercettibilmente, fino a che non prende un fondo leggero di ferro, o forse di stantio. Non si capisce bene. E compare una mezza testa di maiale.
La prima reazione è cercare la metà sottostante, ma c'è un tavolaccio di cemento sporco.
La seconda è di guardarsi attorno, in mezzo ad animali macellati secondo tagli di carne decisamente poco consueti.
Ci facciamo avanti tra polli appena scongelati e animali vari, in varie condizioni, da un lato teniamo le bancarelle del macellaio, mentre dall'altro gli ingredienti delle pozioni magiche ricompaiono e qualcosa di peloso mi sfiora la tempia. Di nuovo, un sussulto.
E' una pelle, piccolissima, maculata. Al massimo una spanna e mezza, potrebbe essere un gattino, ma è colorato come un ocelot. Le zampette a cavallo di un palo orizzontale e la coda a penzoloni. Altre pelli si susseguono, appese e arruffate, mentre costeggiamo un po' delle bancarelle degli ingredienti magici.
A sinistra il passaggio entra nell'edificio, e il tanfo si fa più sordo. Delle cose nere e informi stanno stese sui banchi, adesso. Sembrano dei salumi ricoperti di pepe nero. Poi, mentre gli occhi si abituano meglio alla penombra, compaiono mozziconi di peli e aculei, denti. Sono istrici, cani della prateria, roditori lunghi mezzo metro al massimo, affumicati e rinsecchiti, la pelle e la carne della bocca che si tira indietro a mostrare i dentini aguzzi o i denti da roditore.
Alzo gli occhi sui banchi successivi, e su quelli della fila adiacente: mezze teste di antilopi, piccole antilopi alte al massimo un metro, scuoiate, con la testina che penzola.
Corna di pochi tipi: poche specie. Non devono esserne rimaste molte, nei 100 chilometri intorno alla città.
Ci addentriamo, e faccio attenzione a non toccare minimamente alcun pezzo dei banchi.
Aumentano, verso il punto più scuro, le carcasse affumicate. Mi viene da pensare "povere bestie", ma in fondo chi sono per potermi schifare, o impietosire? Ho l'impressione, però, che il cibo in questo mercato non manchi. E che in fondo non manchi molto nemmeno in città. Ho l'impressione che la carne di caccia non sia indispensabile, da queste parti, ma solo il retaggio pigro a perdersi di un passato di cacciatori e raccoglitori, non di contadini.
Le ultime forme nere che vedo faccio fatica a riconoscerle, all'inizio. E io che pensavo di avere l'occhio allenato. Mostrano i denti, canini lunghi, incisivi quasi umani, occhi frontali. Sembrano bambini, ma in che posizione strana: scimmie affumicate, appese per le braccia e le gambe, sono rimaste in questa posizione come se fossero ancora appese al palo per essere trasportate. Il tutto ha l'aspetto grottesco di piccoli ginnasti, o di felini in corsa congelati nel passo più breve. Non sono nemmeno così piccole, non sono tutte vervet (o l'equivalente qui all'Ovest).
Alcuni sono affettati sulla coscia, come uno speck. Questo mi fa impressione, e mi si deve leggere in viso perché qualcuno ghigna e mi chiede se voglio una fetta di singe. Mdele.
Carne scura, muscolo senza un filo di grasso. Mi viene da pensare, chissà com'è la carne umana. Sembrano bambini, neri e abbrustoliti, con ancora il pelo attaccato e i lineamenti in parte riconoscibili. Ma no, un bambino avrebbe una testa più grande, in proporzione al corpo. E poi, chi vuoi che si mangi i bambini?

Con un vago senso di nausea per i pensieri che mi sono venuti, riattraverso un pezzo del mercato che porta alla strada parallela a quella da cui siamo entrati. Davanti a me un cartello governativo dipinto a mano: uno scimpanzè, dei soldi, delle manette. Chissà che scimmie erano, lì sotto, chissà se le manette valgono solo per gli scimpanzè o anche per tutti gli altri primati. Chissà se in realtà chi si mangia il proprio paese fino all'ultimo boccone viene davvero punito. Chissà se in fondo chi si mangia le risorse di "minor" valore non viene invece punito già, per il semplice motivo che chi sta sopra di lui si mangia il paese vendendosi le risorse minerarie, di "maggior" valore.

mercoledì 12 ottobre 2011

Mai paura... (sottotitolo: l'avvelenata)

non ho pazienza, non l'ho avuta mai: non parlarmi di un viaggio che poi non farai



Ho imparato da poco che si chiama “nodding”. Un tipo ti guarda e sorride, accennando affermativamente con il capo. Dove lavoravo prima aveva un termine meno tecnico: “Sìsìsì, certocertocerto”. Lo diceva il mega capo al posto di uno "Scòrdatelo". Mi sembra quasi irreale che ci sia un nome "etologico" anche per questo. Ma almeno, chi ha deciso di dare un’etichetta a questo comportamento cerca di guadagnarci qualcosa: è una sorta di tecnica di vendita. Il nodding lo facciamo tutti i giorni, non ci pensiamo neppure più, per non litigare, per non dare spiegazioni, per non prendere una posizione, per rassicurare (e se devi rassicurare qualcuno, nove a dieci che lo stai fregando).

Quante volte hai sorriso invece con un urlo nelle orecchie che sentivi solo tu? Quante volte hai fatto buon viso a cattivo gioco (maledizione a me, come odio le frasi fatte), mentre avresti davvero dato due pedate al tavolo e insultato tutti i presenti? Che razza di vita ci stiamo facendo, se passiamo metà del nostro tempo a fare quello che non vorremmo?

Passi sul lavoro. Passi quando “il gioco vale la candela”…ma la candela di chi?! Quando questo sorridere comunque e a prescindere prende possesso della nostra vita, forse stiamo sbagliando qualcosa. Cosa abbiamo paura di perdere?

Se hai paura di perdere qualcosa, non è tuo o non lo vuoi. Basta raccontarti balle. Se hai bisogno di chiedere appoggio a qualcuno per farti dire che non sei convinto, non vali il tempo che il prossimo ti dedica. Se hai bisogno che qualcuno ti spieghi quello che già sai, vattene. Non c'è bisogno di te.

Mi trovo in mezzo a situazioni che non mi appartengono, e che sembrano importantissime. Vitali, addirittura. Impossibile prendere una posizione. E davvero non sono mie: sono quelle di un’altra persona. Che fa cose che non vorrebbe, che non ha le palle di prendere in mano una vita e di lasciarla scorrere. Anche se è la sua.

Andarsene, lasciare, cambiare, mandare tutto affanculo: ne sento parlare da una vita. Benvenuti nel Nordest, nella PaludePadana, a Milano. E' una moda degli ultimi 35 anni (non ne ho di più): tutti se ne vogliono andare, vogliono lasciare…ne parlano in continuazione. E anche quando pensano di essersene andati, in realtà si sono solo mossi, traslati, si sono portati dietro tutto quello a cui erano attaccati, tutto il peggio, raramente il buono. Hanno spostato il loro desiderio da un punto all’altro dell’Italia, dell’Europa tutt’al più. Alcuni anche del mondo. Si sono dimenticati a casa solo l’orgoglio di guardarsi in faccia, l’onestà di ammettere le sconfitte, l’umiltà di chiedersi che cosa vogliono e la responsabilità di prendersi quello che vogliono.

Nessuno che abbia gli attributi per guardarsi in faccia e dirsi che forse non sta seguendo la strada che vuole, perché potrebbe voler dire (chissà...) assumersi una maledetta responsabilità verso di sè, l’uscita da una situazione di stallo, l’inizio di una avventura nuova perché quella vecchia la conosciamo già.

C’è sempre un Frank Miller nella tua testa, se lo vuoi ascoltare, che ti ricorda quanto piccolo puoi essere, e quanto squallido ogni tuo tentativo di eroismo. Forse l'eroismo è davvero appannaggio di pochi, e in troppi vorrebbero sentirsi eroi senza sbattersi davvero per esserlo.

Non hai mai pianto? Non ci riesci? Magari è una fortuna, non l’hai mai pensato?

Non perdono più (in primis me).

Da domani farò di nuovo la brava persona.

Desidero ringraziare Wikipedia, che mi fornisce spessissimo gli approfondimenti, e che esiste ancora nonostante lo stato italiano.

giovedì 29 settembre 2011

Punto e virgola

Venezia, 2002

Devo avere un embolo alla vena creativa...sono decisamente troppo stanco per riuscire a scrivere una lettera impegnativa. A questo punto, ho deciso di raccontarti una favola.
Mille storie mi sono venute in mente, e tutte mi prendevano!
Solo che, alla fine, per ognuna mi sono reso conto che non avevo il coraggio di trovare un finale: erano vicende legate a me o ai miei amici, e l'idea di dar loro un compimento mi è sembrata una violenza (oltre che poco scaramantica). Come si può dar termine a qualcosa ancora in corso?
Per quanto mi sia sforzato, è rimasto un blocco impossibile da spostare...per me resta un tabù: non si può prevedere il proprio futuro, né quello delle persone vicine ("non si può" nel senso di negazione: non si DEVE).

Così ho optato per una storiella, che non è del tutto originale: Silvia l'aveva letta su un Topolino e me ne ha parlato...prima o poi ci farò anche i disegni, ma intanto la racconto a te.

PI ESSE: se avessi voglia, la poesia di cui si parla nel testo è di W. Whitman, "We two, how long we were fool'd", dalla raccolta "Figli d'Adamo" (Children of Adam).

L'edizione degli Acquarelli di "Foglie d'Erba" di W. Whitman, dove leggevo questa poesia, è un libro un po' vissuto: siccome sono lento a leggere poesie, me lo sono trascinato appresso per parecchi giorni, dosandolo a poco a poco. Se aggiungi il fatto che a volte lo riprendo solo per il gusto di rileggere qualcosa, capirai che le intemperie ed i maneggiamenti esterni lo hanno un po' sporcato e logorato. La cartella con cui vado all'università, poi, non è esattamente un esempio di pulizia, né di ordine.
Se la copertina è un po' imbigita, tuttavia le pagine all'interno sono rimaste pulite: un po' gialline, è vero, ma si tratta del colore originale della carta, che tra l'altro è un po' datata.

Sono seduto a Santa Marta, Dipartimento di Scienze, nel riquadro d'erba stentata e calpestata che ci ostiniamo a chiamare pomposamente "giardino", immerso nel profumo e nell'ombra delle robinie in fiore.
E' metà maggio, e l'aria si è scaldata e profumata; le sirene delle navi in partenza dalla Stazione Marittima fischiano, mentre il vento porta lontano il fumo nero delle loro ciminiere.
Un professore si guarda attorno guardingo, coglie un fiore e lo annusa in una estatica frazione di secondo, poi lo nasconde con impacciata nonchalance sotto qualche registro o tra qualche foglio, per portarsi quella misera preda nello studio...un surrogato del giardino: un po' sgualcito, è vero, ma sempre meglio di niente. Quando lo ammirerà si sentirà il Re Sole a Versailles.
Sorrido e distolgo lo sguardo, nella speranza di lasciare al luminare quel po' di intimità con se stesso, cercando di non farmi cogliere nel sorriso spontaneo che mi ispira il suo gesto, e di concedergli quel pudore che gli consenta di sentirsi un "Prof.", animale diverso dal comune e fallibile essere umano.
Per questo faccio finta di seguire, interessatissimo, un volo di farfalle; non basta, e chiamo (giustamente ignorato) il gatto che cerca gli avanzi dei panini della pausa-pranzo.
Lascio scivolare gli occhi sulle numerose coppiette che si baciano e coccolano sulle panchine (più per invidia, che per pudore: è primavera, e non credo possa interessare loro il fatto che qualcuno li stia a guardare), mi soffermo su personaggi in camice, su fumatori, su solitari o su coppie di amici: gente di Economia e Commercio, Chimici, studenti di Scienze...
...ma guarda quei due colombi!!

Loro se ne fregano del mondo circostante esattamente come le coppie sulle panchine, e si strusciano e beccano e spulciano con una tenerezza che ha dell'incredibile.
A turno uno si acquatta e, con gli occhi socchiusi, si lascia fare. L'altro gli gira attorno una o due volte, e comincia poi una pulizia del capo, dolce e pignola come solo un innamorato al primo mese di fidanzamento riuscirebbe a fare.

E' a questo punto che sento un sospiro, e comincia la storia che voglio raccontare e di cui sono stato testimone.
Si tratta di una storia che ho seguito da lontano, cercando di non fare troppo rumore, di non disturbare. Ed ecco cosa accadde.

Mi guardai in giro, finchè avvertii un fremito, come soffio nell'aria immobile, tra le pagine del libro che avevo in mano: possibile che il sospiro venisse proprio da lì?
Allora li vidi.
Se vai a guardare, li vedrai anche tu: un punto alla riga 25, dopo la quarta parola, ed una virgola alla riga 23, dopo la settima parola.
Non c'erano molte parole tra loro (in tutti i sensi), ma erano più che sufficienti per capire abbastanza bene che si piacevano.
La primavera, poi, aveva fatto il resto. Un po' mi sentii anche in colpa, per aver aperto quel libro a quella pagina, proprio nel giorno e nell'ora in cui avrebbe assistito alla danza d'amore dei colombi.
Troppe parole allontanano l'amore...ed in questo caso, anche una sola sarebbe stata di troppo! Senza doversi rincorrere, o dover creare alcuna occasione per conoscersi, bloccati dalla sintassi (ma guarda! Anche tra gli uomini, spesso, sintassi e parole bloccano i sentimenti, con strutture rigide dettate dal di fuori) e senza la possibilità di avvicinarsi se non cambiando il senso alla poesia...si erano innamorati.

Anche per loro il modo più atroce, incontrollato, incomprensibile e forse sincero di innamorarsi, era stato il non potersi raggiungere. La durata (era evidente che i sospiri duravano già da parecchio) era però indice della forza del loro sentimento (se fossero stati umani, avrei detto che era indice della loro testardaggine...).
Come ogni amore che si rispetti, aveva i suoi spettatori (tra i quali ero solo l'ultimo arrivato) ed i suoi confidenti, dall'una e dall'altra parte.
Così lasciai l'astuccio sopra la panchina, aperto accanto al libro. Questo rivolgeva le pagine con la poesia verso il cielo, quasi come fosse un'invocazione che facevo, per me e per tutti gli abitanti del mondo.
Mi nascosi dietro uno dei tronchi di robinia, senza l'accortezza di nascondere anche le mie mosse e palesando così una volta di più a chi mi guardava la mia estraneità al comune (e ricco di buonsenso e luoghi comuni) modo di comportarsi.
Spiai senza ritegno ciò che accadde.
Non appena fu certa la mia dipartita, un fermento percorse le righe, coinvolgendo gli innamorati senza che questi, in realtà, capissero bene il perché.
Ad uno ad uno: penne, matite, gomme e righelli, vennero interpellati ed invocati per un aiuto ed un consiglio...impotenti, tuttavia, di fronte alla grandezza della cosa.
La vecchia stilografica, con la punta storta da una mano non troppo gentile in tempi ormai andati, uscì per sentire meglio la storia.
Alla sua età, ormai, il romanticismo e i ricordi di quel che è già stato sono diventati una realtà in cui è più piacevole vivere. Così si chinò sulla virgola, per sentire dalle sue labbra la confessione d'amore; e questa, forse spinta dalla vacua ed inoffensiva bonarietà di un cimelio del tempo delle elementari (o forse cedendo all'impulso che ci fa parlare con gli estranei, con più confidenza che con i conoscenti, delle nostre questioni di cuore), le raccontò i fatti.
Commossa, la stilografica stillò una lacrima, che si andò a mescolare con l'acquosità del suo sguardo, sciolse l'inchiostro nel pennino, vecchio di anni, e cadde...

...cadde, cadde, cadde, lentamente, fino a fermare il suo volo libero e ad essere imprigionato sulla carta, ormai immobile: un punto sopra la virgola.
Prigionieri di un simbolo di interpunzione quanto del loro legame, per libera scelta.
Traboccanti di felicità per il semplice atto dell'essere vicini.
Tutto attorno a loro, ognuno si sentiva un po' artefice della loro felicità...e un po' anche io.
Qui comincia un'altra storia, ancora tutta da scrivere.
...e io sono rimasto a guardare.

giovedì 22 settembre 2011

Cicatrici

"Per guarigione delle ferite si intende un complesso processo biologico finalizzato al riempimento della soluzione di continuo rappresentata dalla ferita con una struttura definitiva di natura connettivale, la cicatrice." (Wikipedia, guarigione delle ferite).

E' un'osservazione ovvia e banale: siamo anche le cicatrici che portiamo, come i calli, è storia scritta letteralmente sulla nostra pelle. E chi ci ama, ci ama anche per quelle cicatrici. Chi non le capisce, chi ce ne fa una colpa, non ci potrà mai amare per come siamo e cercherà di cambiarci, di sovrapporsi, di cancellarle con una specie di plastica che a lungo andare non potrà reggere il tempo.
Ci sono tanti tipi di cicatrici: dentro e fuori di noi, che si vedono o che sono nascoste, che ostentiamo o che nascondiamo. Ma per quanto stia provando a dividerle in tipologie, ci sono e basta.
Io ne ho una di 12 cm, che nessuno vede mai ma che è estremamente visibile: mi dimentico di averla, e nessuno la vede. Un amico ne ha una vistosa sul viso che, dopo la prima mezz'ora da quando l'ho conosciuto, ormai non vedevo già più.
Ora che ci penso, molte delle persone importanti della mia vita hanno una cicatrice sul viso: alcune non le vedo proprio ma altre, per quanto piccole, restano uno degli elementi di maggior fascino.
L'attrazione maggiore, tuttavia, continuano ad esercitarla le cicatrici che non si vedono: la cupezza intravista dietro il sorriso, le cicatrici dell'anima, le motivazioni che spingono le persone ad essere quello che sono e che regalano bellezza e umanità, secondo il nostro personalissimo modo di vedere le cose.
Forse non è nemmeno importante che le ferite siano chiuse, perchè i punti sensibili ci raccontano che dobbiamo ancora lavorare e lasciar seccare il nuovo connettivo.
Le cicatrici permettono agli altri di riconoscerci anche quando i nostri lineamenti sono mutati: dal passato non si può scappare, si può sperare che con il passare del tempo smetta di far male, ma possiamo essere riconosciuti o farci riconoscere anche quando sembriamo altro, come è successo ad Ulisse di ritorno ad Itaca.
Possiamo raccontare bugie agli altri sulle nostre cicatrici, ma almeno una persona sulla faccia della terra sa da dove vengono: noi, e noi dobbiamo riconoscerci. Mentirci non ci servirà a nulla.

domenica 4 settembre 2011

Da lontano


"Troppo spesso mi sono chiesto chi fosse la presenza che sentivo sopra di me, di cui solo sprazzi di lucidità riuscivano a distillare il nome nella mia mente. Dimentico di ogni consapevolezza nel giro di un passo, ho sempre continuato per la mia strada, inconsapevole di ogni ombra vicina.
Aver creduto nei sogni, pensavo, guarda dove ci ha portato!
...e non ti ho riconosciuto.


Tutti i nostri progetti, pensavo, guarda che fine hanno fatto: imbrattati dalla realtà, quella stessa realtà che entrambi amavamo così tanto da cercare di immortalarla in ogni modo conosciuto...quella realtà per la quale cercavamo nuove espressioni, ritratti sempre diversi, e della quale discutevamo ogni giorno, per ore e ore. Quanto era magica, sempre nuova, scintillante come la pioggia, opaca come un giorno di sole d'estate.

Ci ha fregati.

Non ci ha lasciato il tempo di spiegarle quali fossero le nostre intenzioni, non ci ha dato il tempo di metterle in pratica.
...e adesso mi dici che avrei dovuto riconoscerti?
Il dolore che ti sei portato appresso non è nulla, rispetto a tutto ciò che mi hai lasciato. Le consapevolezze che mi hai seminato dentro stanno germogliando, e vorresti che io le lasciassi disseccare?
Chi sei?
Chi sei stato?
Perchè sei venuto da me, se poi te ne sei voluto andare?
Ora vorresti che io ti riconoscessi.

Ho sempre creduto che un giorno avrei visto una sagoma in lontananza (come confonderti?), ti sarei venuto incontro e ti avrei guardato in viso per qualche istante, provando una serenità ed una soddisfazione dolci, non forti, ma salde. Ti avrei sorriso, come sto facendo ora anche al solo pensarci.
Senza una parola, ci saremmo abbracciati come sempre, con facilità e naturalezza.
Eppure avevo visto il tuo viso lì dentro, quello di tua madre fuori. La violenza che il dolore può scatenare in un'anima.

Sapevo che non saresti potuto più ritornare pur continuando a sognare il tuo ritorno, soprattutto nei momenti in cui le cose sembravano andare tutte storte.
Quante volte le cose sono andate male...prima sembrava che nessuno ci potesse resistere, che avremmo potuto diventare i padroni di niente e i servi di nessuno, liberi di volare, senza renderci conto che già lo eravamo.
Abbiamo vissuto troppo. La fantasia era il nostro cavallo, e abbiamo cavalcato come nessun altro potrà mai aver fatto, nè farà mai.
Tu, ora, vorresti che ti riconoscessi.
Ma lo sai quanto male potrebbe fare?"

venerdì 27 maggio 2011

Scusi, c'è Giggi?

Ritorna il diario milanese di questa primavera di elezioni e risvegli.
Si potrebbe cominciare con un "piove, governo ladro", in questa mattina di temporale, ma per quanto siano due verità indiscusse di questi giorni italiani, speriamo invece che la pioggia lavi, oltre al PM10, anche la stanchezza e l'unto dagli occhi dei milanesi che ancora non si sono svegliati.

Ora ho una certezza: c'è una speranza in un futuro perchè i nostri cuori non sono a noleggio, né caricati a molla. Abbiamo cuori che riescono a battere a un ritmo unico, un cuore che crede in ciò che fa, ed è un cuore forte e grande. E che non si può comprare!!

Ieri sera, complici due birre e due calici di vino, ho deciso di andare a vedere com'era fatto questo Giggi D'Alessio. Lo vitupero con diletto, ma non so che faccia abbia: colgo la palla al balzo e da amante del trash vado con un amico in piazza del Duomo. In moto, praticamente abbiamo parcheggiato nel vuoto direttamente dietro l'albergo dei VIP, di fianco alla Galleria. Che d'altronde era vuota di milanesi, se vogliamo escludere un gruppetto di giovanissimi leghisti che distribuivano volantini (rifiutati dai più) e i consueti turisti.
Entrati in piazza, ci siamo uniti alla mini-folla: forse 5, 6 mila persone. Forse meno. Repubblica è il solito giornale che esagera: 10 mila è un'esagerazione.
Maxi schermi, attesa nell'aria, ma alle 22 ancora nessuno sul palco e un po' di musichine di circostanza. Preparativi dei grandi eventi, gruppetti di vari dialetti sparsi, qualche maglietta bianca con scritte invitanti a supportare Letizia.
Ormai, la Letiziona Nazionale.
Ci serviamo alle pagodine che regalano bottigliette d'acqua (l'acqua del sindaco!!), ce ne sono almeno sei o sette sul fondo della piazza. E sembrano di più, dato che si trovano isolate nello stesso luogo in cui, al concerto di Vecchioni (Vecchioni!!!) la folla mi spingeva indietro a mano a mano che arrivavano più persone.
Guardo il monumento in mezzo alla piazza: ormai, il numero di gradini ricoperti di persone abbarbicate mi indica il grado di godimento del popolo. Ma è vuoto anche quello.
Ci facciamo dare un paio di fili fluorescenti da un signore (asiatico) che li distribuisce aggratis, e proseguiamo guardando i visi di chi ci sta attorno.
In fondo, credo che un terzo delle presenze siano extracomunitarie, che si stanno godendo uno degli eventi culturali della Milano morattiana, il resto sono curiosi come noi, sostenitori con lo sguardo sereno e sorridente, ragazzi puliti che vogliono Giggi. Decisamente, chi è venuto apoliticamente per la festa, se la sta godendo molto più dei supporter importati per l'occasione.

Giro di flash! Riflettori puntati e telecamera pensile in movimento. Lei è arrivata, sorridente ed elegante (tutto si può dire, ma sembra proprio una signora!).
Sale sul palco, attorniata da un entourage degno di una star: il Fürmiga, abbronzatissimo e in formissima, la Iva Zanicchi vistosissima e appena uscita da un'osteria, un paio di assessori (mi dicono...non li riconosco, con o senza trucco).
La poverina in realtà è assolutamente un pesce fuor d'acqua, trascinata da questa folla convinta, sembra non abbia nulla a che spartire con loro. Salgono sul palco, e con un discorso di forse 15 secondi se l'è cavata.
Dono di sintesi.
Pochi applausi, qualcuno comincia a chiedere "Dov'è Giggi?".
La micro-folla di ragazzine e ragazzini davanti al palco si accascia sulle transenne quando l'Iva Zanicchi si rende conto che la candidata se la sta battendo dal palco e la recupera. Arringa la folla come una tigre: bisogna darle atto che non molla e risolleva un paio di mani.
Poi ha la pessima idea di chiedere chi, tra lo sparuto pubblico, sia milanese da almeno due generazioni.
E allora...cantiamo "o mia bela Maduninaaa!!!".
La sagra di paese in genere funziona meglio.
E far cantare Letiziona e Roberto non è un'ottima idea.

Intanto, annuncio!! Adesso un po' di teatro milanese, e poi musicaaa!! E una telefonata in diretta di Gigi D'Alessioooo!!!!
Chiediamo. Ma...scusate, Gigi c'è? Siamo venuti qui per lui. Eh, anche noi. C'è, c'è...
Facce sempre meno convinte, e cominciano le defezioni.
Intanto compaiono frasi e foto edificanti sui maxischermi, proiettori mostrano Letizia in mezzo a bambini multicolore e multietnici, i suoi sostenitori scrollano la testa e dicono "Poverina, non ha colpa...è che le hanno organizzato male la serata.".
E i sorrisi cominciano a svanire, mentre bambini colorati (questi un po' meno ingessati di quelli nelle foto) giocano e ballano, tanto c'è un sacco di spazio.
Avanziamo fin sotto al palco: ormai le defezioni sono continue, una piccola emorragia. Il popolo mormora: che ce ne frega di 'sta roba, vogliamo Giggi, siamo qui per lui.
Gli attori sul palco, vergognosi e decisamente delusi, recitano tra i fischi e il mormorio che cresce: frasi di Montanelli (che si sta rivoltando nella tomba), racconti di giovani donne che lavorano a Milano venendo dalla provincia, scendono da un tram in perfetto orario e passeggiano in una via di periferia illuminata e sicura, guardando con occhi sereni ad un futuro roseo e felice con un lavoro che le porterà a costruirsi una famiglia (ma che "giovani" conosci, Letì?! Vieni con me in giro sulla 95!!).

L'unico, condiviso pensiero è: imbarazzante. E imbarazzati.
Non possiamo crederci nemmeno noi, che pure vogliamo crederci. Questa gente è fuori dal mondo.
Sul palco subentrano un gruppo di ragazzini che cantano una canzone dei Queen. Pure bravi. Ma la folla non si scalda. E fischia.
A nulla vale che questo avanzo di "Amici" inciti i ragazzini a cantare in coro. A nulla vale il balletto "flash mob" di ragazzi scoordinati in maglietta bianca (che in tram osserveranno, parlando con la mamma accompagnatrice "uno schifo, organizzato male, ci hanno fatto fare le prove all'ultimo minuto e poi ci hanno cambiato le entrate! Resta da prendere i soldi e andarsene. E basta. Ma chi vuoi che li voti, se non sanno organizzare un flash mob?").
L'emorragia di presenti continua.
Anche noi ce ne andiamo, ma prima l'entrata di un paio di gambe biondissime a un ritmo pop. E i fischi diminuiscono tra un paio di dimenamenti a tempo di musica. Mi dicono sia una cantante Romena (no...non Rom).
I sorrisi svaniscono dai visi delle magliette bianche, la scritta "Letizia" sulle magliette scompare dietro braccia conserte.

E i casalesi hanno perso l'occasione di conquistare piazza Duomo, per oggi. E se le cose continuano così, anche per i prossimi 5 anni.

Sono le dieci e tre quarti: ognuno ha accumulato il suo ritardo ed è ora di tornare. Lo squallore non ci può toccare e ci scivola addosso, e non possiamo fare a meno di sorridere: a noi non toccherà mai una cosa simile.

Mi resta solo una dedica per Milano e i milanesi. My hometown.


lunedì 23 maggio 2011

no retreat no surrender



E' divertente: in questi giorni Milano è una meraviglia di fibrillazione.
Un primavera allegra, una festa, ma anche l'incazzatura di chi crede nella ragione dalla propria parte.
Un impegno continuo: pro o contro Pisapia, pro o contro Moratti, pro o contro il Premier. Milano si è dimenticata come si fa a nascondere la testa sotto la sabbia e si è ricordata come si fa a rimettersi in gioco.
Nessuno le manda a dire a nessuno.
Tutti si sono, più o meno civicamente, autoarruolati da una parte o dall'altra. Famiglie divise, genitori coinvinti, amici trascinati alle cene, gruppuscoli che discutono agli angoli della strada o al bar.
Non solo le vecchie "elite" impegnate politicamente: tutti i cittadini, per strada, prendono una posizione definita e argomentata.
Va anche detto che, per strada o nei mezzi pubblici, non si sente un commento favorevole al sindaco uscente, né alla sua parte politica.

Stili diversi, eventi tra i più disparati: ci parlano di una convinzione trasversale che copre tanto la sinistra radical chic quanto lo stradino, tanto gli ex 68ttini quanto i liceali che votano per la prima volta, tanto i neo genitori quanto chi ha liberato Milano nel '45.
Concerti, eventi, biciclettate, aperitivi, balli: pochi soldi spesi e da spendere, ma tanta fatica e tanta voglia di veder premiati i propri sforzi. Sono i "lumbard" che lavorano, che volantinano con lo stesso impegno con cui trascorrono le 8 ore da mezze maniche o da partite IVA, sottraendo risorse al tempo libero medio del milanese DOC, che è risaputo essere poco.

Milano è un laboratorio per tutta Italia, in questo momento: dopo aver rovesciato tutte le previsioni, dalle primarie alle amministrative, si dà la scalata al seggio di sindaco forse più in vista del Paese. Finalmente con tutta l'intenzione di una parte coesa, distinta in correnti che sono state tuttavia capaci di costruire assieme un programma e una strategia condivisi.
Soprattutto, che hanno smesso di parlare solo tra di loro e di darsi ragione uno con l'altro.
Siamo già tutti d'accordo sulle linee di base? Sì?
E allora pensiamo a spiegare agli altri, che sono indecisi o non sono d'accordo con noi, cosa non ci va bene o cosa vogliamo per il nostro futuro!
Forse, proprio aver condiviso il proprio sogno con gli altri ha dimostrato di avere senso e utilità.

Benvenga questa PRIMAVERA MILANESE, con cittadini che sognano e non si limitano a brontolare tra le righe!
E' una primavera che sta portando più sorrisi di quelli che si potevano immaginare, costruiti con sudore e speranza in uguale quantità. E con tanta rabbia, va detto, per gli sprechi e le bassezze che si sono visti in questi anni di governo della città e in questa campagna elettorale.
Rabbia perchè il tempo da dedicare all'impegno elettorale è poco, perchè tutti abbiamo bisogno di tre lavori per vivere. Rabbia perchè con i soldi spesi per un decimo della campagna morattiana si sarebbero potute costruire scuole e pagare stipendi ad insegnanti d'asilo nido per anni a venire. O pagare la mensa a un sacco di bambini figli di residenti a Milano con un reddito al limite della povertà. O ancora, si sarebbero potute sovvenzionare attività culturali per tutti, che andassero oltre il liveMi e la sua tendona in piazza Duomo.
Con i soldi spesi per un'ecopass, voluto per raggranellare denaro e non per disincentivare l'uso dell'auto, o con i denari spesi per le consulenze fornite al comune, si sarebbero potute fornire assistenze ad anziani e bambini, servizi alle mamme che lavorano, libri alle biblioteche (così si impara anche il concetto di bene collettivo da rispettare, non solo di bene privato regalato!!). Perchè i bambini di Milano hanno quasi tutti l'asma o si stanno avviando su questa strada, e quando lo racconto in giro nessuno mi crede.
Perchè i problemi di Milano non sono i Rom e i Sinti (che non sembrano superare le 3000 unità), anche se l'attenzione viene puntata su di essi. I problemi non sono nemmeno le moschee.
I problemi di Milano sono gli appartamenti che restano sfitti perchè nessun bat-figlio può permettersi affitti o costi elevati, mentre vengono costruite nuove cubature da vendere a 9.000 euro al metro quadro. I problemi di Milano sono l'inquinamento dell'aria e l'inefficienza dei mezzi pubblici! I problemi di Milano sono il bisogno di servizi per tutti in una città che vuole essere di respiro internazionale, l'impossibilità di poter accedere alle cliniche pubbliche perchè le private convenzionate vengono preferite nelle politiche degli amministratori!

Cappello sollevato per la sinistra milanese, da sempre e ancora divisa tra "giovani e vecchi", tra "SEL e PD", ma unita in uno scopo che, per fortuna, non è cacciare Berlusconi ma è dare un governo pulito alla propria città: chi combatte per se stesso e per i suoi interessi ci mette più forza, e qui si stanno difendendo i propri interessi di adulti precari, di studenti che vogliono un furturo, di chi ha già avuto una bella vita piena, e non vuole vederla regredire quanto a qualità e possibiltà, di genitori che chiedono un posto migliore per i propri figli nel futuro.
Sono queste, le voci che si sentono in strada.
Accanto a quelle stesse voci che un tempo hanno votato Lega per evitare gli sprechi e il malgoverno. In fondo, l'onestà è dalla loro parte: ammettono un errore e fanno ammenda.
In tram si sentono dialetti ed accenti diversi, siculo e dialetto lombardo. Tutti d'accordo tra di loro. Massaie e pensionate al mercato, madri di famiglia fuori da messa, signori distinti.
Anche la campagna della destra ha avuto sicuramente un impatto positivo nell'unire e svegliare (per sfinimeto e schifo) la coscienza dei cittadini. Che finalmente si sentono tali e si rimboccano le maniche.
Tanto di cappello a Boeri, che ha accettato una sconfitta impensabile alle primarie, ed ha supportato il candidato "improbabile". Complimenti ai cittadini dei comitati, che hanno portato a casa un risultato che mai si era visto in questa città (e forse nel resto del Paese).

La tensione è alta, le aspettative di più. Anche se non si vincesse l'ultima sfida, un gradino energetico importante è stato superato: uniti si può, è dimostrato. Non ci sono tabù: la città è nostra e non si potrà comprare di nuovo, nè svendere, senza che prima i cittadini abbiano detto la loro. Non è "partecipazione", è finalmente riprendersi la propria autodeterminazione.
I milanesi hanno smesso di delegare ad altri le proprie decisioni.
Complimenti a tutti coloro che sono riusciti ad usare il sarcasmo per rispondere agli insulti, i nuovi media e l'ironia per rispondere ad accuse ignobili e a bugie talmente grossolane che nessuno ha avuto coraggio di sostenerle, nemmeno a destra!

E' bellissimo vivere questo momento: da tutta Italia gli amici ed i conoscenti mi chiedono notizie su Milano, su che atmosfera si respira, su cosa accade, previsioni e speranze.

Milanesi, rendetevene conto!! Avete una responsabilità, adesso, un po' come il 25 aprile 1945. Tutta l'Italia sta guardando a cosa succede qui.
Per la prima volta l'invidia dei più non è rivolta verso l'idea di benessere e ricchezza, ma l'ammirazione è rivolta verso la soddisfazione che stiamo per prenderci.
E' una responsabilità, e un onore. C'è l'Italia pulita che vi sta a guardare e che chiede la dimostrazione che "si può fare".
Non lasciateci a bocca asciutta!!

http://www.pisapiaxmilano.com/

sabato 9 aprile 2011

Dedicata a Rotaie Verdi

Ritorno sul progetto a distanza di quattro mesi: ne avevo parlato in un post precedente. Reduce da una serata di festa, alcune riflessioni che girano da un po' di tempo nella mia testa hanno bisogno di essere scritte.
L'immagine è l'argentovivo, il mercurio: parti con una goccia, una persona, che ne colpisce un'altra con un'idea.
L'idea si attacca, la goccia si ingrossa, e queste due persone ne colpiscono una terza, o un altro gruppuscolo, e si attaccano tra loro. E la goccia cresce.

Volevo una dimostrazione per una città che sembra non voler niente per davvero, dove anche le persone che hanno voglia di fare qualcosa spesso portano avanti idee e non fatti. Spesso "organizzano eventi". A seconda del periodo e della moda del momento.
Invece volevo lasciare la mia zampata: in un delirio di micro-onnipotenza perfino il signor nessuno può lasciare la sua impronta, se vuole creare, e non solo parlarne, i grandi sistemi. Se è disposto a rinunciare alla "proprietà" unica di un'idea pur di vederla realizzata e sapere quanto di sè c'è dentro. Ho colpito un'altra persona, e poi ci siamo coagulati con una terza...o forse è questa terza che è collisa con noi. E siccome similia similibus solvuntur, abbiamo potuto creare un campo di gioco comune, grande abbastanza da poter essere usato da molti giocatori. E non smettiamo di giocare, ognuno a modo proprio.

Tutto il resto è arrivato a cascata: un nome quasi casuale, un "cappello" formale e prestigioso (il WWF Italia) che ha voluto fidarsi e investire in un sogno, la soddisfazione di veder crescere qualcosa che, ormai è quasi una certezza, lascerà un segno. Se anche morisse qui, domani, avremmo comunque già ottenuto di arricchire Milano e i suoi modi di pensare: abbiamo fatto balenare nella fantasia di qualcuno che non c'è un solo modo di fare le cose, e cioè lasciarle fare agli agli altri per poi contestarle.
Si possono fare davvero, e in grande.
Siamo partiti con un'idea piccola e abbiamo fatto un rebelòt.
Non riesco ancora ad immaginare il giorno in cui ci sarà qualcosa di realizzato, nè quale sarà la sua forma finale, ma sembra sempre più vicino.

domenica 13 febbraio 2011

La rivoluzione dei sorrisi

Eh, beh!
E' stato bello. Tutto l'insieme.
Dopo aver passato tutta la mattina a vomitare, sapere che ha senso andare a manifestare quello che pensi. Ultimo colpetto prima di uscire, poi via!
Prendere l'autobus verso il centro, rendersi conto che la maggior parte dei passeggeri stanno andando con i figli, i mariti e i fidanzati, o con le amiche, a fare uno shopping diverso dal solito struscio domenicale in via Torino.
Sorridere tra la nausea, schiacciati come sardine, perchè la gente che vuole andare in centro a manifestare è talmente tanta da non poter salire sulla 50, e l'annuncio che "causa manifestazione, la corsa termina a Cadorna" si porta dietro un sorriso: vuoi vedere che alle 14.30 la folla già arriva a Cadorna e non sono i 4 gatti di due settimane fa davanti alla Scala?!
Fuori dal finestrino, piove.
Speriamo smetta: ho paura che fino a che non la smette, non ci sarà nessuno in piazza. Ma noi sì.
E invece, i marciapiedi di via Foppa, la domenica di solito deserti, sono popolati di gruppetti muniti di ombrelli e cappucci, che sorridono e vanno avanti con passo deciso.
Piove un po' più forte. Speriamo bene.
Mi guardo attorno: una signora, sull'autobus, chiede a voce alta, piuttosto scocciata, cosa succeda oggi. Atmosfera di festa: signora, si va alla manifestazione! E lei sorride: ah, già, la manifestazione. Ha una sciarpa bianca, è già pronta, non viene anche lei? Va in ospedale, peccato. Ma ci sorride, ed è già molto.
Eh, sì. Perchè oggi è un giorno di sorrisi: scendiamo dal mezzo e ci ritroviamo circondati da rivoli di persone con ombrelli colorati, tutti sorridenti ma con piglio deciso, che telefonano agli amici e si mettono d'accordo per incontrarsi, che raccontano ai figli che potrebbe essere una giornata importante, ed è giusto che anche loro la condividano.
Rivoli che piano piano di uniscono e formano fiumiciattoli, occupano marciapiedi, debordano nei viali, si gonfiano: non posso quasi crederci, l'unica cosa da fare è sorridere!
Una rivoluzione pacifica, per una manifestazione comica e serissima, persone di ogni età, ceto, condizione sociale e fisica.
I disordini che ho visto in posti in cui si spara col mitra mi fanno rizzare le orecchie: alcune automobili sono rimaste parcheggiate e si trovano attorniate dalla folla. Una cosa pericolosissima, speriamo solo una svista, il comune non le ha fatte spostare.
Pochi poliziotti e pochi carabinieri: forse non si aspettavano grande affluenza. Nessuna tenuta anti sommossa sbandierata: un paio, a tratti, addirittura sorridono. O forse vedo tutto con il filtro della speranza di questo giorno grigio a Milano, con (per fortuna) pochissime bandiere politiche, ma qualche tricolore. Non c'è niente in comune con l'Egitto o la Tunisia.
E i commenti danno molta importanza, finalmente, alla condotta pubblica di un ladro, colluso e in odore di mafia. Sulla vita privata si ride e si ironizza, ma l'accento di tutti è sull'oscenità dell'arroganza. Tutti in piazza sono genitori di qualche figlio costretto ad emigrare in un altro paese per poter lavorare. O sono incazzati perchè non arrivano a fine mese. O credono nello Stato, e si incazzano perchè lo Stato viene deriso. O hanno paura che la figlia gli diventi velina.
Si esulta, contenuti, quando qualcuno in ritardo racconta che la folla arriva fino in Piazza Duomo. Che siamo talmente tanti da non poter passare. Ma quando qualcuno sta male, tutti insieme riusciamo a spostarci indietro di un passo per fare spazio, come ai corsi di teatro, quando ci si muove come un corpo solo, ma qui oggi siamo migliaia!
Formiche cha danno la scalata al monumento di Piazza Cairoli.

Milano oggi mi ha commossa, come fa spesso da qualche tempo in qua. Milano è ancora viva, e lo ha detto a voce alta. Seria, ma sorridendo.
Una specie di intifada dei sorrisi.

giovedì 13 gennaio 2011

Vivere il sogno

Riprendo un titolo banale, per parlare del piccolo grande progetto di tre amici e del WWF Italia.

Rotaie Verdi (nome di fantasia contenuta, aggiudicato ancora non si è capito come) è l'idea nata da tre menti che curiosamente hanno identificato degli obiettivi simili, partendo da background e valori comuni, portando approcci e competenze diversi.

Nasce dalla volontà di fare qualcosa di tangibile e di duraturo, da lasciare a chi verrà dopo, nella speranza che i valori si possano trasmettere, nello spazio e nel tempo, attraverso le idee e la realizzazione delle idee.
E' un progetto di ecologia, di urbanistica, di sviluppo e marketing territoriale: vuole dimostrare che la conservazione e la gestione delle risorse non sono solo un investimento in perdita. Sono invece un servizio che difende valori intrinseci, la biodiversità e la natura, e i servizi che questi stessi valori portano alla comunità: la difesa dalle piante alloctone (che come l'ambrosia possono causare allergie), il controllo del microclima urbano, la riqualificazione del paesaggio culturale urbano, o la possibilità e il diritto di fruire di un ambiente più bello.

E' un progetto che ha bisogno del supporto delle amministrazioni pubbliche, dei gestori ferroviari, e che necessita il supporto dei privati e delle comunità. In cui tutti ci rendiamo conto di essere proprietari e fruitori di un bene di cui non si può definire il valore materiale.

L'ispirazione viene da una nuova ondata di parchi urbani e cittadini nelle principali città del mondo, che recuperano e rivalutano strutture e infrastrutture e difendono la biodiversità urbana: la High Line a new York (nella foto), la Promenade Plantée a Parigi, e poi Philadelphia, Londra...tutti progetti che nascono dal basso, dalle comunità, dai professionisti e dai residenti.

Il progetto verrà presentato all'interno di un evento, Fuori Geco, che si terrà a The Hub Milano questa sera, 13 gennaio, dalle 20.30 alle 22.30.