mercoledì 30 novembre 2011

Sulla schiavitù

Riporto un pezzo di Pessoa, forse il mio poeta preferito in questi anni.
Ripreso dal "Libro dell'Irrequietezza" di Bernardo Soares.

"La schiavitù è la legge della vita, e non c’è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L’amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana perché nuova e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l’orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell’angolo o a non scambiar il buongiorno con l’ozioso barbiere.
Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle."

lunedì 14 novembre 2011

Al grand marché

Immaginiamo di andarcene al mercato.
Un bel mercato africano, chiassoso e colorato. Cesti, banane e bambini. Bacinelle colorate piene di qualsiasi cosa, set di pentole smaltate. Immancabili sacchetti di plastica, inutili e sottili, ti seguono in mano ad un accompagnatore autonominatosi per l'occasione.
Con le bancarelle strette strette una all'altra: comincia su dei banconi di cemento, coperti da un tetto, in una struttura in muratura aperta come un enorme porticato. Tutto attorno sono cresciuti interi quartierini di banchetti e bancarelle di legno coperte, che ormai fanno un tutt'uno.
Si passa da una strada vociante, piena di clacson e persone, motorette e passanti, sole e polvere, a una serie di budelli in cui, addentrandosi, la luce si attenua a poco a poco.
Per terra, canaline di scolo in cui è poco raccomandabile infilare un piede, cartoni e pezzi di legno arraffazzonati per evitare di mettere i piedi nella fanghiglia o nella merce che marcisce, o su qualche coda di pesce vecchia di giorni, o su qualche pezzo di intestino. O su chissà che liquido si sia mischiato con la polvere e la terra della strada.
Sopra tutto, un'allegrissima puzza, di cose che si decompongono, di sporcizia, spezie, verdure e frutta, e di esseri umani puliti, sporchi o profumatissimi, e qualche cane.
Si va a settori: il settore del pesce fresco e secco, di mare, e affumicato, di fiume. Il settore della verdura e della frutta. Alcuni prodotti sono venduti già lavorati, come la pasta di arachidi, tegami di montagne marrone chiaro odorosissime, o alcune verdure già tagliate a striscioline sottili (come il fumbu, fettine sottilissime di foglie tagliate al momento in mucchi verdi) o a rondelline. La frutta viene venduta intera, ma anche pronta per essere mangiucchiata mentre si discute un prezzo o si cerca la propria merce. Manioca ovunque: in farina, in piccoli pani avvolti da foglie secche, in tuberi neri.
Settore dei vestiti e delle stoffe, canottiere e magliette appese in ogni dove, reggiseni che si potrebbero usare come reti da pesca, mucchi di magliette lerce, pantaloni vistosi, qualche strass. Extensions e smalti segnano una piccola digressione tra un paio di estetiste improvvisate, prima di passare ad oggettistiche varie e altri cosmetici. E tronchetti di argilla da mangiare, per le donne incinte. Dietro, si vedono ancora caschi di banane.
Qualcuno ti sfiora la mano e te la tira leggermente, e siccome non te l'aspetti, distratto da tutto quello che ti circonda, ti spaventi e hai un piccolo soprassalto. Un tipo semisdraiato che ghigna alle tue spalle, si ridistende a pisolare. Stronzo. Intorno, si diffonde profumo di spezie e di frutta.
Nel frattempo, mentre pensi ai regali che potresti cercare, a qualche collanina, a chi ti ha chiesto con aria seria di portargli un pezzo di Congo, cambia la tipologia di merce. Cala un po' la luce: sei ormai al centro delle bancarelline di legno, attorno alla costruzione centrale in cemento, e cominciano a comparire strani ossicini, polveri, piccoli crani, bacche seccate, bastoncini e oggetti che non si capisce se siano ripugnanti o meno...ma ad ogni buon conto, meglio non toccare troppo e stare al centro del passaggio angusto tra una bancarella e l'altra.
Perle strane, cordoncini, piccoli fasci d'erbe, becchi e piume, qualche zampa di uccello. Mah.
Non è da queste parti che nasceva la magia nera del vudù africano?
Non ci credo, ma ad ogni buon conto scivolo con gli occhi e non mi soffermo quando mi chiamano "mdele", bianco. Qui non mi va di scherzare e sorridere e salutare. Non ci sono bambini dietro le bancarelle, ma non saprei dire chi altri ci sia.
Nel frattempo l'odore cambia impercettibilmente, fino a che non prende un fondo leggero di ferro, o forse di stantio. Non si capisce bene. E compare una mezza testa di maiale.
La prima reazione è cercare la metà sottostante, ma c'è un tavolaccio di cemento sporco.
La seconda è di guardarsi attorno, in mezzo ad animali macellati secondo tagli di carne decisamente poco consueti.
Ci facciamo avanti tra polli appena scongelati e animali vari, in varie condizioni, da un lato teniamo le bancarelle del macellaio, mentre dall'altro gli ingredienti delle pozioni magiche ricompaiono e qualcosa di peloso mi sfiora la tempia. Di nuovo, un sussulto.
E' una pelle, piccolissima, maculata. Al massimo una spanna e mezza, potrebbe essere un gattino, ma è colorato come un ocelot. Le zampette a cavallo di un palo orizzontale e la coda a penzoloni. Altre pelli si susseguono, appese e arruffate, mentre costeggiamo un po' delle bancarelle degli ingredienti magici.
A sinistra il passaggio entra nell'edificio, e il tanfo si fa più sordo. Delle cose nere e informi stanno stese sui banchi, adesso. Sembrano dei salumi ricoperti di pepe nero. Poi, mentre gli occhi si abituano meglio alla penombra, compaiono mozziconi di peli e aculei, denti. Sono istrici, cani della prateria, roditori lunghi mezzo metro al massimo, affumicati e rinsecchiti, la pelle e la carne della bocca che si tira indietro a mostrare i dentini aguzzi o i denti da roditore.
Alzo gli occhi sui banchi successivi, e su quelli della fila adiacente: mezze teste di antilopi, piccole antilopi alte al massimo un metro, scuoiate, con la testina che penzola.
Corna di pochi tipi: poche specie. Non devono esserne rimaste molte, nei 100 chilometri intorno alla città.
Ci addentriamo, e faccio attenzione a non toccare minimamente alcun pezzo dei banchi.
Aumentano, verso il punto più scuro, le carcasse affumicate. Mi viene da pensare "povere bestie", ma in fondo chi sono per potermi schifare, o impietosire? Ho l'impressione, però, che il cibo in questo mercato non manchi. E che in fondo non manchi molto nemmeno in città. Ho l'impressione che la carne di caccia non sia indispensabile, da queste parti, ma solo il retaggio pigro a perdersi di un passato di cacciatori e raccoglitori, non di contadini.
Le ultime forme nere che vedo faccio fatica a riconoscerle, all'inizio. E io che pensavo di avere l'occhio allenato. Mostrano i denti, canini lunghi, incisivi quasi umani, occhi frontali. Sembrano bambini, ma in che posizione strana: scimmie affumicate, appese per le braccia e le gambe, sono rimaste in questa posizione come se fossero ancora appese al palo per essere trasportate. Il tutto ha l'aspetto grottesco di piccoli ginnasti, o di felini in corsa congelati nel passo più breve. Non sono nemmeno così piccole, non sono tutte vervet (o l'equivalente qui all'Ovest).
Alcuni sono affettati sulla coscia, come uno speck. Questo mi fa impressione, e mi si deve leggere in viso perché qualcuno ghigna e mi chiede se voglio una fetta di singe. Mdele.
Carne scura, muscolo senza un filo di grasso. Mi viene da pensare, chissà com'è la carne umana. Sembrano bambini, neri e abbrustoliti, con ancora il pelo attaccato e i lineamenti in parte riconoscibili. Ma no, un bambino avrebbe una testa più grande, in proporzione al corpo. E poi, chi vuoi che si mangi i bambini?

Con un vago senso di nausea per i pensieri che mi sono venuti, riattraverso un pezzo del mercato che porta alla strada parallela a quella da cui siamo entrati. Davanti a me un cartello governativo dipinto a mano: uno scimpanzè, dei soldi, delle manette. Chissà che scimmie erano, lì sotto, chissà se le manette valgono solo per gli scimpanzè o anche per tutti gli altri primati. Chissà se in realtà chi si mangia il proprio paese fino all'ultimo boccone viene davvero punito. Chissà se in fondo chi si mangia le risorse di "minor" valore non viene invece punito già, per il semplice motivo che chi sta sopra di lui si mangia il paese vendendosi le risorse minerarie, di "maggior" valore.