giovedì 3 maggio 2012

Avventure

Ci facciamo strada nel canneto, in mezzo al fango, mentre i sandali restano impigliati nelle radici che affiorano. Affondiamo nell’argilla viscida con un effetto ventosa che quasi ci scalza. Oltre la vegetazione sentiamo voci e suoni, ma giungono attutiti. O forse è solo lo stordimento della pozione magica che non ci fa percepire bene, ma ci ha permesso di varcare la porta su una dimensione sconosciuta. Ci guardiamo in faccia, borbottiamo un’imprecazione a mezza bocca ogni volta che battiamo l'alluce su una pietra o che scivoliamo rischiando di finire a terra. I rumori attorno quasi spariscono, ci abbassiamo per non farci vedere, silenziosi per quanto possibile, dalla strada pattugliata.
Ci siamo quasi! Stringiamo i denti. Dobbiamo saltare alcuni rivoli d’acqua, ma ci finiamo dentro fino alla caviglia, mentre le zanzare non ci danno tregua e il sudore ci cola negli occhi.
Mi volto: mi segui ancora? Sì.
Le tracolle si incastrano nei rami più bassi, le magliette leggere quasi si strappano, i pantaloni larghi sono d’impaccio in questa macchia fitta. Spostiamo a turno i rami, ci abbassiamo per passare sotto ai tronchi caduti o ci alziamo per scavalcarli, mentre le borse che portiamo a tracolla sfiorano l’acqua stagnante e la melma: dobbiamo fare attenzione, non devo perdere la bottiglia con la pozione, acre e rosso sangue, e tu non devi perdere i colori magici, o tutto sarà stato inutile! Le superfici sono ricoperte di uno strato di alghe verdognole, una sorta di mucillagine velenosa. Non dobbiamo sfiorarla.
Siamo due esploratori intrepidi: i primi a mettere piede su questo pezzo dell’isola, i primi a sfidare la sua maledizione. Il nostro mezzo ci ha abbandonati a due giorni di cammino: intorno a noi terre primordiali, ancora inesplorate, stanno per svelare i loro tesori segreti, le loro specie peculiari, ecosistemi primitivi e ancora vergini, forse popolazioni ostili. Forse ci stanno osservando, in attesa di capire le nostre intenzioni. A mani nude, a piedi quasi scalzi, ci facciamo avanti nella boscaglia, mentre quella parvenza di sentiero è sparito ormai da un bel po’, segno evidente che nessuno si avventura mai fino a qui.
Siamo due naufraghi, lasciati su un’isola deserta, mille occhi ci guardano tra il verde dei rami. Nell’acqua movimenti languidi spostano appena la superficie. Potrebbero esserci bestie, sepolte nel fango, che nemmeno possiamo immaginare. Animali nuovi, tutti da scoprire, pericolosissimi, mentre sulle nostre teste volano uccelli che emettono suoni sconosciuti.
Ci addentriamo sempre più nel verde, su una lingua di terra sempre più sottile, per arrivare a dove la terra sbocca sull’acqua e la boscaglia si apre all’improvviso su un bacino, all’aperto. Ci sorridiamo, tenendoci per mano, arriviamo sulla riva e ci raddrizziamo, respirando a fondo l’aria umida della notte, un po’ puzzolente di marcio, di vita che evolve. A volte ci sosteniamo abbracciandoci, quando le gambe e i piedi fanno cilecca, quando inciampiamo, felici per una nuova scoperta. Gli uccelli acquatici ci scappano da sotto i piedi, starnazzano perché stiamo disturbando il loro sonno. I coccodrilli si ritrasformano in tartarughe d’acqua lasciate da famiglie stufe di accudirle.
Torniamo indietro: ripercorriamo un pezzo della strada fatta fino a qua, dove il sentiero ormai non si vede più. Abbiamo sbagliato direzione. Le zanzare ci massacrano, i rami ci pungono i piedi nudi e il fango minaccia di passo in passo di staccarci le scarpe dai piedi. Piedi che, ormai, sono bicolori: chiari sopra, dove la polvere e l’argilla si sono seccate, e scuri sotto, dove il fango è ancora umido e fresco. Scivoliamo e ci sosteniamo a vicenda ancora qualche volta. Ci avranno seguiti? Allunghiamo le orecchie, aspettiamo il rumore di passi dietro di noi, l’imprecazione e i tonfi goffi degli anfibi neri che spaccano i ramoscelli sotto la suola. Arriviamo ad una passerella, sospesa a un metro da terra da un lato, dall’altro lato l’acqua più profonda e scura, specchio quasi immobile che riflette le stelle e qualche altra luce. Dobbiamo fare attenzione: siamo allo scoperto. Camminiamo sulla passerella in cemento, larga una quarantina di centimetri. Scavalchiamo rami e cespugli, inciampiamo sulle canne cadute e sui tubi di un’idrovora mai vista in funzione. Maledetti, non ci avrete! Stiamo rischiando la vita, ma non ci arresterete, non lasceremo che fermiate la nostra rivoluzione!
Cadi, quasi. Ma ti tengo per mano e non ti lascio perdere l’equilibrio, mentre mi giro per essere sicura dalla tua presenza. Inciampo, ma le tue mani mi tengono e non finisco in acqua. Riequilibro il tascapane. Alziamo gli occhi: ci siamo quasi, i nostri compagni ci fanno cenno con le mani, oltre la boscaglia, alle loro spalle i tazebao di guerra dipinti sul muro della rivoluzione. Se arriviamo fino a lì, siamo salvi!
Chi vuoi che sia talmente pazzo da seguirmi in una missione di questo tipo, solo per arrivare a vedere dove sbocca il sentiero, solo per vedere cosa c’è nel canneto, che non si possa vedere dalla strada? La prossima volta che beviamo due litri (erano due?) di vino (rosso) in due, eviteremo di scendere in darsena in sandali.