giovedì 29 settembre 2011

Punto e virgola

Venezia, 2002

Devo avere un embolo alla vena creativa...sono decisamente troppo stanco per riuscire a scrivere una lettera impegnativa. A questo punto, ho deciso di raccontarti una favola.
Mille storie mi sono venute in mente, e tutte mi prendevano!
Solo che, alla fine, per ognuna mi sono reso conto che non avevo il coraggio di trovare un finale: erano vicende legate a me o ai miei amici, e l'idea di dar loro un compimento mi è sembrata una violenza (oltre che poco scaramantica). Come si può dar termine a qualcosa ancora in corso?
Per quanto mi sia sforzato, è rimasto un blocco impossibile da spostare...per me resta un tabù: non si può prevedere il proprio futuro, né quello delle persone vicine ("non si può" nel senso di negazione: non si DEVE).

Così ho optato per una storiella, che non è del tutto originale: Silvia l'aveva letta su un Topolino e me ne ha parlato...prima o poi ci farò anche i disegni, ma intanto la racconto a te.

PI ESSE: se avessi voglia, la poesia di cui si parla nel testo è di W. Whitman, "We two, how long we were fool'd", dalla raccolta "Figli d'Adamo" (Children of Adam).

L'edizione degli Acquarelli di "Foglie d'Erba" di W. Whitman, dove leggevo questa poesia, è un libro un po' vissuto: siccome sono lento a leggere poesie, me lo sono trascinato appresso per parecchi giorni, dosandolo a poco a poco. Se aggiungi il fatto che a volte lo riprendo solo per il gusto di rileggere qualcosa, capirai che le intemperie ed i maneggiamenti esterni lo hanno un po' sporcato e logorato. La cartella con cui vado all'università, poi, non è esattamente un esempio di pulizia, né di ordine.
Se la copertina è un po' imbigita, tuttavia le pagine all'interno sono rimaste pulite: un po' gialline, è vero, ma si tratta del colore originale della carta, che tra l'altro è un po' datata.

Sono seduto a Santa Marta, Dipartimento di Scienze, nel riquadro d'erba stentata e calpestata che ci ostiniamo a chiamare pomposamente "giardino", immerso nel profumo e nell'ombra delle robinie in fiore.
E' metà maggio, e l'aria si è scaldata e profumata; le sirene delle navi in partenza dalla Stazione Marittima fischiano, mentre il vento porta lontano il fumo nero delle loro ciminiere.
Un professore si guarda attorno guardingo, coglie un fiore e lo annusa in una estatica frazione di secondo, poi lo nasconde con impacciata nonchalance sotto qualche registro o tra qualche foglio, per portarsi quella misera preda nello studio...un surrogato del giardino: un po' sgualcito, è vero, ma sempre meglio di niente. Quando lo ammirerà si sentirà il Re Sole a Versailles.
Sorrido e distolgo lo sguardo, nella speranza di lasciare al luminare quel po' di intimità con se stesso, cercando di non farmi cogliere nel sorriso spontaneo che mi ispira il suo gesto, e di concedergli quel pudore che gli consenta di sentirsi un "Prof.", animale diverso dal comune e fallibile essere umano.
Per questo faccio finta di seguire, interessatissimo, un volo di farfalle; non basta, e chiamo (giustamente ignorato) il gatto che cerca gli avanzi dei panini della pausa-pranzo.
Lascio scivolare gli occhi sulle numerose coppiette che si baciano e coccolano sulle panchine (più per invidia, che per pudore: è primavera, e non credo possa interessare loro il fatto che qualcuno li stia a guardare), mi soffermo su personaggi in camice, su fumatori, su solitari o su coppie di amici: gente di Economia e Commercio, Chimici, studenti di Scienze...
...ma guarda quei due colombi!!

Loro se ne fregano del mondo circostante esattamente come le coppie sulle panchine, e si strusciano e beccano e spulciano con una tenerezza che ha dell'incredibile.
A turno uno si acquatta e, con gli occhi socchiusi, si lascia fare. L'altro gli gira attorno una o due volte, e comincia poi una pulizia del capo, dolce e pignola come solo un innamorato al primo mese di fidanzamento riuscirebbe a fare.

E' a questo punto che sento un sospiro, e comincia la storia che voglio raccontare e di cui sono stato testimone.
Si tratta di una storia che ho seguito da lontano, cercando di non fare troppo rumore, di non disturbare. Ed ecco cosa accadde.

Mi guardai in giro, finchè avvertii un fremito, come soffio nell'aria immobile, tra le pagine del libro che avevo in mano: possibile che il sospiro venisse proprio da lì?
Allora li vidi.
Se vai a guardare, li vedrai anche tu: un punto alla riga 25, dopo la quarta parola, ed una virgola alla riga 23, dopo la settima parola.
Non c'erano molte parole tra loro (in tutti i sensi), ma erano più che sufficienti per capire abbastanza bene che si piacevano.
La primavera, poi, aveva fatto il resto. Un po' mi sentii anche in colpa, per aver aperto quel libro a quella pagina, proprio nel giorno e nell'ora in cui avrebbe assistito alla danza d'amore dei colombi.
Troppe parole allontanano l'amore...ed in questo caso, anche una sola sarebbe stata di troppo! Senza doversi rincorrere, o dover creare alcuna occasione per conoscersi, bloccati dalla sintassi (ma guarda! Anche tra gli uomini, spesso, sintassi e parole bloccano i sentimenti, con strutture rigide dettate dal di fuori) e senza la possibilità di avvicinarsi se non cambiando il senso alla poesia...si erano innamorati.

Anche per loro il modo più atroce, incontrollato, incomprensibile e forse sincero di innamorarsi, era stato il non potersi raggiungere. La durata (era evidente che i sospiri duravano già da parecchio) era però indice della forza del loro sentimento (se fossero stati umani, avrei detto che era indice della loro testardaggine...).
Come ogni amore che si rispetti, aveva i suoi spettatori (tra i quali ero solo l'ultimo arrivato) ed i suoi confidenti, dall'una e dall'altra parte.
Così lasciai l'astuccio sopra la panchina, aperto accanto al libro. Questo rivolgeva le pagine con la poesia verso il cielo, quasi come fosse un'invocazione che facevo, per me e per tutti gli abitanti del mondo.
Mi nascosi dietro uno dei tronchi di robinia, senza l'accortezza di nascondere anche le mie mosse e palesando così una volta di più a chi mi guardava la mia estraneità al comune (e ricco di buonsenso e luoghi comuni) modo di comportarsi.
Spiai senza ritegno ciò che accadde.
Non appena fu certa la mia dipartita, un fermento percorse le righe, coinvolgendo gli innamorati senza che questi, in realtà, capissero bene il perché.
Ad uno ad uno: penne, matite, gomme e righelli, vennero interpellati ed invocati per un aiuto ed un consiglio...impotenti, tuttavia, di fronte alla grandezza della cosa.
La vecchia stilografica, con la punta storta da una mano non troppo gentile in tempi ormai andati, uscì per sentire meglio la storia.
Alla sua età, ormai, il romanticismo e i ricordi di quel che è già stato sono diventati una realtà in cui è più piacevole vivere. Così si chinò sulla virgola, per sentire dalle sue labbra la confessione d'amore; e questa, forse spinta dalla vacua ed inoffensiva bonarietà di un cimelio del tempo delle elementari (o forse cedendo all'impulso che ci fa parlare con gli estranei, con più confidenza che con i conoscenti, delle nostre questioni di cuore), le raccontò i fatti.
Commossa, la stilografica stillò una lacrima, che si andò a mescolare con l'acquosità del suo sguardo, sciolse l'inchiostro nel pennino, vecchio di anni, e cadde...

...cadde, cadde, cadde, lentamente, fino a fermare il suo volo libero e ad essere imprigionato sulla carta, ormai immobile: un punto sopra la virgola.
Prigionieri di un simbolo di interpunzione quanto del loro legame, per libera scelta.
Traboccanti di felicità per il semplice atto dell'essere vicini.
Tutto attorno a loro, ognuno si sentiva un po' artefice della loro felicità...e un po' anche io.
Qui comincia un'altra storia, ancora tutta da scrivere.
...e io sono rimasto a guardare.

giovedì 22 settembre 2011

Cicatrici

"Per guarigione delle ferite si intende un complesso processo biologico finalizzato al riempimento della soluzione di continuo rappresentata dalla ferita con una struttura definitiva di natura connettivale, la cicatrice." (Wikipedia, guarigione delle ferite).

E' un'osservazione ovvia e banale: siamo anche le cicatrici che portiamo, come i calli, è storia scritta letteralmente sulla nostra pelle. E chi ci ama, ci ama anche per quelle cicatrici. Chi non le capisce, chi ce ne fa una colpa, non ci potrà mai amare per come siamo e cercherà di cambiarci, di sovrapporsi, di cancellarle con una specie di plastica che a lungo andare non potrà reggere il tempo.
Ci sono tanti tipi di cicatrici: dentro e fuori di noi, che si vedono o che sono nascoste, che ostentiamo o che nascondiamo. Ma per quanto stia provando a dividerle in tipologie, ci sono e basta.
Io ne ho una di 12 cm, che nessuno vede mai ma che è estremamente visibile: mi dimentico di averla, e nessuno la vede. Un amico ne ha una vistosa sul viso che, dopo la prima mezz'ora da quando l'ho conosciuto, ormai non vedevo già più.
Ora che ci penso, molte delle persone importanti della mia vita hanno una cicatrice sul viso: alcune non le vedo proprio ma altre, per quanto piccole, restano uno degli elementi di maggior fascino.
L'attrazione maggiore, tuttavia, continuano ad esercitarla le cicatrici che non si vedono: la cupezza intravista dietro il sorriso, le cicatrici dell'anima, le motivazioni che spingono le persone ad essere quello che sono e che regalano bellezza e umanità, secondo il nostro personalissimo modo di vedere le cose.
Forse non è nemmeno importante che le ferite siano chiuse, perchè i punti sensibili ci raccontano che dobbiamo ancora lavorare e lasciar seccare il nuovo connettivo.
Le cicatrici permettono agli altri di riconoscerci anche quando i nostri lineamenti sono mutati: dal passato non si può scappare, si può sperare che con il passare del tempo smetta di far male, ma possiamo essere riconosciuti o farci riconoscere anche quando sembriamo altro, come è successo ad Ulisse di ritorno ad Itaca.
Possiamo raccontare bugie agli altri sulle nostre cicatrici, ma almeno una persona sulla faccia della terra sa da dove vengono: noi, e noi dobbiamo riconoscerci. Mentirci non ci servirà a nulla.

domenica 4 settembre 2011

Da lontano


"Troppo spesso mi sono chiesto chi fosse la presenza che sentivo sopra di me, di cui solo sprazzi di lucidità riuscivano a distillare il nome nella mia mente. Dimentico di ogni consapevolezza nel giro di un passo, ho sempre continuato per la mia strada, inconsapevole di ogni ombra vicina.
Aver creduto nei sogni, pensavo, guarda dove ci ha portato!
...e non ti ho riconosciuto.


Tutti i nostri progetti, pensavo, guarda che fine hanno fatto: imbrattati dalla realtà, quella stessa realtà che entrambi amavamo così tanto da cercare di immortalarla in ogni modo conosciuto...quella realtà per la quale cercavamo nuove espressioni, ritratti sempre diversi, e della quale discutevamo ogni giorno, per ore e ore. Quanto era magica, sempre nuova, scintillante come la pioggia, opaca come un giorno di sole d'estate.

Ci ha fregati.

Non ci ha lasciato il tempo di spiegarle quali fossero le nostre intenzioni, non ci ha dato il tempo di metterle in pratica.
...e adesso mi dici che avrei dovuto riconoscerti?
Il dolore che ti sei portato appresso non è nulla, rispetto a tutto ciò che mi hai lasciato. Le consapevolezze che mi hai seminato dentro stanno germogliando, e vorresti che io le lasciassi disseccare?
Chi sei?
Chi sei stato?
Perchè sei venuto da me, se poi te ne sei voluto andare?
Ora vorresti che io ti riconoscessi.

Ho sempre creduto che un giorno avrei visto una sagoma in lontananza (come confonderti?), ti sarei venuto incontro e ti avrei guardato in viso per qualche istante, provando una serenità ed una soddisfazione dolci, non forti, ma salde. Ti avrei sorriso, come sto facendo ora anche al solo pensarci.
Senza una parola, ci saremmo abbracciati come sempre, con facilità e naturalezza.
Eppure avevo visto il tuo viso lì dentro, quello di tua madre fuori. La violenza che il dolore può scatenare in un'anima.

Sapevo che non saresti potuto più ritornare pur continuando a sognare il tuo ritorno, soprattutto nei momenti in cui le cose sembravano andare tutte storte.
Quante volte le cose sono andate male...prima sembrava che nessuno ci potesse resistere, che avremmo potuto diventare i padroni di niente e i servi di nessuno, liberi di volare, senza renderci conto che già lo eravamo.
Abbiamo vissuto troppo. La fantasia era il nostro cavallo, e abbiamo cavalcato come nessun altro potrà mai aver fatto, nè farà mai.
Tu, ora, vorresti che ti riconoscessi.
Ma lo sai quanto male potrebbe fare?"