lunedì 29 febbraio 2016

C'è un tempo per tutto.

Ero a Colombo per la mia visita bisettimanale agli uffici governativi, in cerca del mio visto e gironzolando senza passaporto (se non per una fotocopia sgualcita della pagina col timbro d'entrata, ormai scaduto da mesi).
Il mio autista tuttofare sapeva della mia passione per gli elefanti.
Cosa poteva farci: animali così maestosi, eppure comuni, scatenavano urletti da deficiente nel suo capo ("Boss", come mi chiamava lui). Ma, buddista fino al midollo, era un uomo che praticava le buone azioni sperando che anche quell'idiota del suo capo potesse contribuire al karma.

Quindi, aspettandomi all'uscita da un appuntamento, se ne esce con un "Elephant, boss! Elephant! Come! Come! Come!"
In sostanza, mi trascina in auto, tutto agitato, e mi porta davanti ad un tempio dove un elefante stava incatenato di fianco a una montagna di cibo vario, tra pannocchie e banane, e a lato di una montagnola di sterco solo di poco più bassa (ve lo dico prima che me lo chiediate: non puzza, la cacca d'elefante).
Una bestia di dimensioni assolutamente notevoli. Maestoso. Ancora schizzato dei colori della festa di un paio di giorni prima, l'anello alla zampa posteriore destra e la catena mi facevano ribrezzo ma non sembrava infastidito per nulla.
Poteva sganciarsi quando voleva, o almeno questa era l'impressione.

Una signora bionda e budinosa, accanto a me, era vestita cme un esploratore inglese di inizio '900 e scattava mille foto, esclamando ad ogni movimento del bestione.
Con una spinta, mi sono ritrovata oltre il recinto, a due metri dall'animale, con il suo guardiano che proponeva di scattare due foto e dargli una mancia. Per il mio karma.
Guardo alle mie spalle il buon Jaya, tutto felice per avermi messo in quella fantastica posizione in cui potrò finalmente essere accanto a quegli animali giganti che tanto ammiro. Che ottima azione ha fatto, oggi! Il suo karma comincia già a risplendere, lo spinge un passo avanti, anche se piccolo, nella gita tribolata della sua anima attraverso il mondo.
Mortacci sua! Quel bestione è grosso. Davvero. Fa una fifa blu, e avercelo davanti ti fa sentire vulnerabile. Troppo.
Il guardiano sorride sdentato, masticando betel e mostrando la saliva rosso sangue: "Picture?".
Faccio un passo verso il recinto, pensando che ho già superato abbondantemente la dose di coraggio degli ultimi due mesi. Ma Jaya mi spiega con rapidità quale sia la stoltezza del mio gesto: "Boss: he's a poor man". Sottinteso: non farmi fare figure da cioccolataio. Giuda.

Mi avvicino lentamente. Manco potessi spaventarlo, povero topolino che non sono altro.
Pachidermico, continua a ruminare, prendere una pannocchia con la proboscide, ruminare. E ruminare. E prendere una pannocchia. E ruminare.
E poi mi guarda.
Cosa ci faccio, qui?
Mamma, ho fatto testamento prima di partire. Lascio tutto ai miei fratelli.
Mi viene messa in mano una pannocchia, ma ho davvero troppa paura di avvicinarmi a quella bocca enorme, col labbrone pendulo. E' quasi osceno.
Dopo un paio di tentativi di afferrare la pannocchia che gli tendo da lontano, con le mani che tremano, il bestione si stanca e si arrangia, strappandomela di mano.

Ridendo rosso, il guardiano mi mete in mano una banana e mi dà una spinta, per ridere: a lui, del mio omicidio ad opera di un elefante e del suo karma, non gliene può fregar di meno. Per non cadere, mi appoggio alla proboscide, in alto, vicino alla bocca, e penso che adesso il gigante sbaglia mira e mastica anche la mia manina, insieme alla banana.

Mi aspetto di atterrare su una crosta grigia e ispida, fredda e sgradevole. Quando mi appoggio su una superficie compatta, calda e morbida, stranamente asciutta nei 30 gradi umidi di Colombo a mezzogiorno, con pochi peli radi che non pungono.
Mi toglie dolcemente la banana di mano e se la mangia.
Poi abbassa lo sguardo, inclinando leggermente la testa, e mi chiede se ci voleva proprio così tanto coraggio.
E io vorrei stare lì, a gongolare e a godermi la mia paura passata. Per così poco! A sentirmi l'essere più coraggioso al mondo. E ad accarezzare con tenerezza un bestione che, per bontà sua, non mi schiaccia per gioco come noi faremmo con una blatta.
Ma è ora di ripartire, Jaya, a posto col suo karma, ha fame e vuole tornare a casa.

Ogni lezione ha il suo tempo.
La paura che ti lascia è forse uno dei momenti più belli della tua vita.

"No! Provare no!
Fare, o non fare! Non c'è provare!"
M.o Yoda

lunedì 22 febbraio 2016

Sulla paura

Panico.
Paura.
Terrore.
Fobia.
Strizza.
Scaga.
Cagarella.
Timore.
Spago.
Spavento.
Tremarella.
Angoscia.

Altro?

Sembra il dramma dell'umanità di questi giorni.
Tutto è bloccato dalla paura di qualcosa. Tutto potrebbe essere e non è, per paura che possa non essere.
A cosa serve la paura? A restare cautamente vivi...e fin qua ci siamo.
Ma se la paura diventa il motivo per il quale muori dentro un po' ogni giorno? Ma se ammazzi qualcuno ogni giorno, per la tua paura di aver paura di...?
Diventare grandi non vuol dire non avere paura. Essere coraggiosi, non vuol dire non aver paura.
Smettere di aver paura di aver paura. Ecco, forse questo sì.

martedì 16 febbraio 2016

...a sort of homecoming.

A sort of homecoming. Qui il post rischia di essere un tripudio di citazioni.
Ma tornare a G-eco, come era inteso nei primi mesi, è un po' come tornare a casa.

Il perché è facile: tutti quelli che avevano da dire qualcosa di interessante sul loro blog, quando ho cominciato, hanno smesso per mancanza di tempo o per estinzione degli argomenti interessanti. O usano i blog per parlare con una sola persona alla volta.
O per fotografare cosa hanno mangiato a pranzo.
I salaci omini lego di Voxoffice dormono in una scatola. L'infanzia è finita e si diventa grandi.
Quanto a me, che mi annoio di Facebook che parla solo di quello che si vede alla televisione, chissà se dopo tanta vita passata dall'ultimo post sarò capace di guardarmi indietro con rabbia come tutti.

PS. Devo dire che l'interfaccia è migliorata.


domenica 3 giugno 2012

Papa o famiglia?


Se alla fine le polemiche sul papa si sono concentrate su un buffetto dei vescovi a Pisapia, e sulla smentita da parte del sindaco di Bresso rispetto alle proibizioni ad affacciarsi alle finestre, ci tengo a dare una piccola testimonianza dei giorni vissuti rispetto alla visita papale per l’incontro delle famiglie.
Tralasciando le persone che mangiavano il panino parcheggiando il proprio deretano in piazza Duomo e suonando allegramente la chitarrra osannando il Celeste (quello vero, non Formigoni), cosa su cui sono d’accordo in linea di massima, non fosse che nessun altro lo può fare senza essere cacciato dai vigili.
Tralasciando il fatto che (finalmente) si deve dire che ATM, Trenitalia e LeNord hanno fatto funzionare bene i mezzi (Miracolo!) e che c'è stato un notevole servizio informazioni.
Tralasciando anche i quadretti buffi in cui tonacati si sono piazzati sopra la griglia della metro in pieno stile Marilyn Monroe per veder confiare il gonnellone. Plauso delle suore, con malcelata invidia in una giornata calda.
E tralasciamo anche la quantità di denaro spesa per questa buona visita, che sommandosi alla manifestazione del 2 giugno rende ancora più difficili da sopportare la crisi e le accise per la ricostruzione post terremoto.
Tralasciamo le polemiche sul diritto delle coppie, intendendo tutte le coppie (ma allora, perché proprio a Milano? Fatevi il vostro incontro in un posto in cui non siate in aperta polemica nei confronti del governo cittadino).
Tralasciamo il cattivo gusto del capo del governo di una nazione straniera che ha scelto il giorno in cui si festeggia la Repubblica di uno stato ospite e laico per celebrare un incontro che supporta nettamente alcune precise scelte politiche di parte.
Tralasciamo anche la presenza di cori a cappella nella metropolitana, muniti di testi fotocopiati, telecamera professionale e piccolo cordone di credenti a difesa dei cantori che impedivano l'entrata nei vagoni (provate voi a suonare qualsiasi genere in qualsiasi mezzo o area pubblica, a Milano: vi chiedono di andarvene, e spesso i cittadini si scocciano anche un pochino).
Tralascerei anche la solita polemica sul fatto che per parlare di famiglia, forse dovresti prima averne una (intendo una vera, in cui litighi con la moglie, lavori troppo per riuscire a fare all'amore quanto vorresti, devi far quadrare i conti, i figli chiedono la play station, il vino lo paghi più dell'acqua e i pani e pesci non si moltiplicano da soli).
Insomma, tralasciando tutto, resta che Milano è vissuta per tre giorni in funzione di un capo di stato straniero che interferisce con gli argomenti politici nostrani. Tralasciando tutto, non resta che la scomodità di doversi adattare alle fermate della metropolitana chiuse, ai blocchi del traffico, ai mezzi stracarichi, alle ondate di "turisti" organizzatissimi che campeggiano sui marciapiedi e nelle piazze.
Mi chiedo se al buon Benedetto non sia venuta voglia di fare due passi per la città, e se non abbia eventualmente una squadra di robusti ragazzotti credenti e sorridenti che spostino le persone che chiedono l’elemosina (se non ve ne foste accorti, a Milano sono aumentate), per non rovinare il paesaggio e non farlo sembrare troppo reale. O se, alzando gli occhi durante la sua passeggiatina, si accorga che stanno moltiplicandosi i cartelli “Vendesi”, dato che anche a Milano sembra finalmente palese che i solidi vengano venduti per recuperare liquidi. Magari, se non restasse in Duomo o a San Siro, potrebbe farsi un giro a Corvetto e chiacchierare con le persone che ci vivono, o potrebbe passare dietro il mercato ortofrutticolo (lì il campo Rom non è nemmeno abusivo…beh, quello che è bruciato di fianco sì, ma tanto non c’è più).
Caro Benedetto, non è che hai esattamente fatto girare l’economia, ma qualcos’altro credo tu l’abbia fatto girare in questi giorni.
Non so gli altri, ma a me la “famiglia per forza” non ha convinto.
Vediamo se per il Dalai Lama, tra un paio di settimane, sarà la stessa cosa. Ah, no, scusa…lui in fondo è solo un rifugiato politico.
Come? Ah, siete entrambi i capi spirituali di una religione. Scusatemi…malpenso come al solito.

giovedì 3 maggio 2012

Avventure

Ci facciamo strada nel canneto, in mezzo al fango, mentre i sandali restano impigliati nelle radici che affiorano. Affondiamo nell’argilla viscida con un effetto ventosa che quasi ci scalza. Oltre la vegetazione sentiamo voci e suoni, ma giungono attutiti. O forse è solo lo stordimento della pozione magica che non ci fa percepire bene, ma ci ha permesso di varcare la porta su una dimensione sconosciuta. Ci guardiamo in faccia, borbottiamo un’imprecazione a mezza bocca ogni volta che battiamo l'alluce su una pietra o che scivoliamo rischiando di finire a terra. I rumori attorno quasi spariscono, ci abbassiamo per non farci vedere, silenziosi per quanto possibile, dalla strada pattugliata.
Ci siamo quasi! Stringiamo i denti. Dobbiamo saltare alcuni rivoli d’acqua, ma ci finiamo dentro fino alla caviglia, mentre le zanzare non ci danno tregua e il sudore ci cola negli occhi.
Mi volto: mi segui ancora? Sì.
Le tracolle si incastrano nei rami più bassi, le magliette leggere quasi si strappano, i pantaloni larghi sono d’impaccio in questa macchia fitta. Spostiamo a turno i rami, ci abbassiamo per passare sotto ai tronchi caduti o ci alziamo per scavalcarli, mentre le borse che portiamo a tracolla sfiorano l’acqua stagnante e la melma: dobbiamo fare attenzione, non devo perdere la bottiglia con la pozione, acre e rosso sangue, e tu non devi perdere i colori magici, o tutto sarà stato inutile! Le superfici sono ricoperte di uno strato di alghe verdognole, una sorta di mucillagine velenosa. Non dobbiamo sfiorarla.
Siamo due esploratori intrepidi: i primi a mettere piede su questo pezzo dell’isola, i primi a sfidare la sua maledizione. Il nostro mezzo ci ha abbandonati a due giorni di cammino: intorno a noi terre primordiali, ancora inesplorate, stanno per svelare i loro tesori segreti, le loro specie peculiari, ecosistemi primitivi e ancora vergini, forse popolazioni ostili. Forse ci stanno osservando, in attesa di capire le nostre intenzioni. A mani nude, a piedi quasi scalzi, ci facciamo avanti nella boscaglia, mentre quella parvenza di sentiero è sparito ormai da un bel po’, segno evidente che nessuno si avventura mai fino a qui.
Siamo due naufraghi, lasciati su un’isola deserta, mille occhi ci guardano tra il verde dei rami. Nell’acqua movimenti languidi spostano appena la superficie. Potrebbero esserci bestie, sepolte nel fango, che nemmeno possiamo immaginare. Animali nuovi, tutti da scoprire, pericolosissimi, mentre sulle nostre teste volano uccelli che emettono suoni sconosciuti.
Ci addentriamo sempre più nel verde, su una lingua di terra sempre più sottile, per arrivare a dove la terra sbocca sull’acqua e la boscaglia si apre all’improvviso su un bacino, all’aperto. Ci sorridiamo, tenendoci per mano, arriviamo sulla riva e ci raddrizziamo, respirando a fondo l’aria umida della notte, un po’ puzzolente di marcio, di vita che evolve. A volte ci sosteniamo abbracciandoci, quando le gambe e i piedi fanno cilecca, quando inciampiamo, felici per una nuova scoperta. Gli uccelli acquatici ci scappano da sotto i piedi, starnazzano perché stiamo disturbando il loro sonno. I coccodrilli si ritrasformano in tartarughe d’acqua lasciate da famiglie stufe di accudirle.
Torniamo indietro: ripercorriamo un pezzo della strada fatta fino a qua, dove il sentiero ormai non si vede più. Abbiamo sbagliato direzione. Le zanzare ci massacrano, i rami ci pungono i piedi nudi e il fango minaccia di passo in passo di staccarci le scarpe dai piedi. Piedi che, ormai, sono bicolori: chiari sopra, dove la polvere e l’argilla si sono seccate, e scuri sotto, dove il fango è ancora umido e fresco. Scivoliamo e ci sosteniamo a vicenda ancora qualche volta. Ci avranno seguiti? Allunghiamo le orecchie, aspettiamo il rumore di passi dietro di noi, l’imprecazione e i tonfi goffi degli anfibi neri che spaccano i ramoscelli sotto la suola. Arriviamo ad una passerella, sospesa a un metro da terra da un lato, dall’altro lato l’acqua più profonda e scura, specchio quasi immobile che riflette le stelle e qualche altra luce. Dobbiamo fare attenzione: siamo allo scoperto. Camminiamo sulla passerella in cemento, larga una quarantina di centimetri. Scavalchiamo rami e cespugli, inciampiamo sulle canne cadute e sui tubi di un’idrovora mai vista in funzione. Maledetti, non ci avrete! Stiamo rischiando la vita, ma non ci arresterete, non lasceremo che fermiate la nostra rivoluzione!
Cadi, quasi. Ma ti tengo per mano e non ti lascio perdere l’equilibrio, mentre mi giro per essere sicura dalla tua presenza. Inciampo, ma le tue mani mi tengono e non finisco in acqua. Riequilibro il tascapane. Alziamo gli occhi: ci siamo quasi, i nostri compagni ci fanno cenno con le mani, oltre la boscaglia, alle loro spalle i tazebao di guerra dipinti sul muro della rivoluzione. Se arriviamo fino a lì, siamo salvi!
Chi vuoi che sia talmente pazzo da seguirmi in una missione di questo tipo, solo per arrivare a vedere dove sbocca il sentiero, solo per vedere cosa c’è nel canneto, che non si possa vedere dalla strada? La prossima volta che beviamo due litri (erano due?) di vino (rosso) in due, eviteremo di scendere in darsena in sandali.

venerdì 23 dicembre 2011

Di nuovo sull'eroismo

Attraversare mari in tempesta: questo lo sappiamo fare. Scherzare con le bestie più pericolose, uccidere i giganti cattivi, affrontare le crudeltà più atroci, prendersela con quelli più grossi di noi, combattere battaglie perse. Yeah, tutto per la nostra stoffa.
Ma le piccole crudeltà di ogni giorno, la ricerca di un pezzo di sé…
Non che ci sia una legge universale: sembra sempre che gli altri ci riescano senza sforzo, e che tu invece resti lì, piantato nel fango che si secca e non riesci ad uscirne. Mica panico da sabbie mobili, no. Già sarebbe qualcosa che ti farebbe sentire come minimo un eroe.
Leggi Neruda, leggi Pessoa: ti sembra di essere in ottima compagnia. Solo che loro erano poeti, magari anche con qualche problema di depressione e personalità multipla. Ma almeno scrivevano bene.

E tu? Che fai? Ti arrampichi sugli specchi, giochi, crei una maschera da usare e da tenere ben lontana dal viso. Nessuna bugia, solo una crosta di verità. Un gioco di parole divertente che ti fa sentire furbo e intelligente. Prendi ispirazione da tutto quello che ti circonda, e sei di volta in volta una strega nel maelstrom dello spazio, un arciere in una città-stato post moderna, il nome di una creatura magica.
E lo strano testo di una canzone che ti canti da solo, liberando reami immaginari e saldando debiti altrui con una giustizia che conosci solo tu: un eroe, un eroe vero.

(le immagini di questo post sono tratte dagli albi di Leo ortolani, Rat Man 299 e +1)

mercoledì 30 novembre 2011

Sulla schiavitù

Riporto un pezzo di Pessoa, forse il mio poeta preferito in questi anni.
Ripreso dal "Libro dell'Irrequietezza" di Bernardo Soares.

"La schiavitù è la legge della vita, e non c’è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L’amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana perché nuova e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l’orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell’angolo o a non scambiar il buongiorno con l’ozioso barbiere.
Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle."